Rubrica "in...fondo, in....fondo"

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Se lo sport passa in secondo piano: vertice di ordine pubblico per un match di calcio
QUANDO LA PARTITA SI GIOCA PRIMA IN PREFETTURA
NAPOLI-AVELLINO, UN DERBY DA RICORDARE

di Ermanno Russo

Cosa ci fanno asserragliati in una stanza dello storico Palazzo della Foresteria, a due passi da piazza Plebiscito e nel cuore della metropoli partenopea, i questori, i prefetti ed i responsabili della Digos di due importanti province della Campania come Napoli ed Avellino? La risposta non sembrerebbe – per la verità – degna del miglior rompicapo: un vertice di ordine pubblico. D’accordo, ma qual è l’emergenza che si sta affrontando? Forse quella dei rifiuti, perenne e capace di infervorare per l’alto tasso di tensione sociale che comporta anche il più tranquillo abitante della nostra regione? O quella tornata di bruciante attualità della sicurezza, esasperata dalle vicende drammatiche degli ultimi giorni? Sarà mica per il grande caldo in arrivo, fenomeno che lo scorso anno ha pericolosamente insidiato la vita di una vasta, vastissima schiera di anziani e quest’anno rischia di ripetersi in tutta la sua complessità? No, le massime cariche sul territorio di Governo e Polizia stanno discutendo da ore di una partita di calcio. Sì, avete capito bene di una partita di calcio.
Si tratta del derby Napoli-Avellino, due squadre che oggi militano in serie C e che domenica si contenderanno allo stadio San Paolo, nella prima delle due gare di seminifinale dei play-off la possibilità di accedere al campionato cadetto. La serie B. Ebbene, a discutere di questo appuntamento che in qualunque altro paese verrebbe qualificato come sportivo, sono le forze dell’ordine e, più in generale, lo Stato. A questo punto vi chiederete: che fine hanno fatto i dirigenti delle società, i responsabili della Federazione italiana gioco calcio e della Lega? Niente paura, ci sono anche loro al vertice in Prefettura a Napoli, ma – per effetto di una bizzarra abitudine che gli organi federali ed il mondo del calcio da un po’ hanno preso – non decidono granché, abdicano al loro stesso potere decisionale, preferiscono tirarsi fuori dalla faccenda. Così, dopo ore di scontri verbali e ripicche tra i vertici dei due club campani – impegnati esclusivamente a studiare come trarre il massimo profitto, peraltro legittimamente, dalla gara – sono i questori ed i prefetti a decidere sul dafarsi. A stabilire che le due partite si giocheranno, che si disputeranno nei rispettivi stadi e che non ci sarà diretta tv (generalmente prevista sulle reti Rai per motivi di ordine pubblico). La chiosa del questore di Napoli, ampiamente riportata dalla stampa locale, a margine della riunione è emblematica: “Che Dio ce la mandi buona…”. Insomma, lo Stato con tutti i problemi che ha da affrontare dalle prime luci dell’alba sino a notte fonda ha dovuto farsi carico anche dell’organizzazione e dell’eventuale esito di un evento che alla prima sembrerebbe sportivo, ma che per le ripercussioni che ha avuto e che sta avendo va delineandosi come qualcosa di estremamente distante dallo sport e dai suoi valori, così come vengono per fortuna ancora insegnati a scuola.
Ecco allora che chi crede nella funzione aggregante di questo meraviglioso ambito di socializzazione ed interazione in Italia, e nel Sud in particolare, finisce per essere apostrofato con l’irriverente appellativo di nostalgico o, peggio ancora, sognatore. Una condanna eccessiva? Mah, il calcio sta dimostrando di meritarsela tutta. Un tempo, neanche troppo lontano, le gare si disputavano soltanto la domenica in un contesto di ortodossia pura, magnificato da poche e seguitissime trasmissioni televisive, gesti scaramantici, fair play ed un rispetto pressocché assoluto dentro il rettangolo di gioco tra gli atleti. I calciatori erano concentratissimi prima e durante la gara, niente paroloni nei confronti dell’arbitro, pochissimi gesti di stizza all’indirizzo degli avversari, quasi mai si vedevano reazioni plateali o contatti fisici da rissa durante i match. Oggi, ventottenni stramilionari e puntualmente in copertina sul tabloid di turno prendono a schiaffi i rivali in campo senza colpo ferire. Pagano multe salatissime, ma sotto sotto se ne infischiano. Così al mito del calciatore caparbio, leader dello spogliatoio e saggio, che calma i rissosi delle tifoserie con gesti che invitano alla tranquillità e al rispetto, va sostituendosi il bullo da quartiere che irride con la sua presunta bravura gli avversari, si lascia circondare da frange di ultrà violenti e pronti a fare botte alla prima occasione, assesta ceffoni a destra e manca invitando – seppur indirettamente – le tifoserie a fare altrettanto. Ed i risultati sono palesi, si commentano da soli. Lo sport fa un passo indietro e la violenza due in avanti. I ragazzini si danno al wrestling americano e, a ben vedere, neanche più sanno come son fatte le figurine – un tempo definite immortali – da collezionare con lo storico album Panini.

In tutto questo a perderci non sono né i calciatori né i club, ma ancora una volta i cittadini, la gente comune, i singoli individui. Così il calcio da passione e medicina di quell’insoddisfazione giovanile, di quell’emarginazione sociale, di quel disagio che veniva sistematicamente ed efficacemente curato ovunque vi fosse un pallone ed una porta verso la quale tirarlo, si trasforma in uno specchio opaco di fenomeni perniciosi ed altamente lesivi di cui la nostra società, purtroppo, al giorno d’oggi abbonda. Partendo da questa premessa – ahinoi veritiera e realistica – non c’è da scandalizzarsi in… fondo, in… fondo se una gara si disputa prima al chiuso della Prefettura e, soltanto in un secondo momento, sul campo di gioco dedicato.
08/06/2005