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Referendum, in fumo gli appelli della politica. Gli italiani non votano
SEGGI DESERTI, SFIORATO IL MINIMO STORICO
E’ LA CRISI DEI PARTITI CHE VOGLIONO STRAFARE
di Ermanno
Russo
14/06/2005
L’avevamo detto: l’impressione è che questo referendum tutti lo vogliano vincere. Il riferimento era evidentemente ai partiti, che hanno caratterizzato in negativo la vigilia del voto, abbandonandosi ad indicazioni e suggerimenti troppo simili ai cosiddetti ‘ordini di scuderia’. Un paradosso. Si chiama il popolo alle urne, rievocando pomposamente l’epiteto di ‘sovrano’ storicamente riconosciutogli da fatti ed eventi, ma poi si finisce per condizionare pesantemente la scelta dell’elettorato, svilendone irrimediabilmente l’autonomia. E’ così, come la saggezza popolare ricorda, chi troppo vuole nulla stringe. Questa volta a voler troppo sono stati i partiti, di destra come di sinistra, con risultati catastrofici. Seggi semideserti e minimo storico sfiorato. A votare si è recato soltanto il 25,9 degli aventi diritto, uno striminzito 0,2 in più rispetto allo scorso referendum, quello di appena due anni fa su un tema altrettanto criptico e delicato come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Quanto a record negativi di affluenza, comunque, la statistica ci viene in aiuto. Sono esattamente dieci anni che non si raggiunge il quorum in Italia. L’ultima volta è accaduto nell’ormai lontano 1995 in occasione della legge elettorale per i Comuni. Ben due lustri or sono, dunque, durante i quali altre cinque volte i cittadini italiani sono stati chiamati ai rispettivi seggi per esprimere un voto sui temi più disparati e spesso inutili. E tutte e cinque volte hanno risposto picche. Ciò testimonia chiaramente come lo strumento referendario sia reso inefficace dall’inconsueta e del tutto anomala assimilazione a strumento di lotta politica. Ad esso si ricorre in maniera ormai spregiudicata e poco condivisa. I temi che si sottopongono al popolo, in nome della sua tanto citata sovranità, sono complicati, impegnativi e di difficile divulgazione.
Le forze politiche, che pure sono state deputate dall’elettorato ad affrontare e portare avanti il processo legislativo nel Paese sulle materie di pubblico interesse (compresa quella della fecondazione assistita), spesso si sottraggono clamorosamente all’onere e all’onore di determinare le leggi, preferendo trasferire il confronto dialettico; all’interno dei rispettivi partiti e schieramenti sul delicato terreno del referendum. Ecco allora che An si spacca e chiede con le sue correnti le dimissioni del vicepremier Fini. Così come Mastella e Rutelli vanno all’attacco di Prodi. E, per finire, Pannella se la prende con i presidenti delle regioni cosiddette rosse che non avrebbero spinto abbastanza per il sì; Antonio Bassolino in testa.
Dinanzi ad un quadro politico tanto frastagliato, emerge chiaramente un conflitto di fondo – netto e difficile da sanare – sul significato del referendum ed il conseguente comportamento dei partiti. Come dire: perché si reagisce in questo modo, chiedendo dimissioni o rimproverando i leader, se alla fin fine dovrebbe interessare soltanto il giudizio del popolo? La risposta va anche questa volta rintracciata nella logica esasperata in auge tra i partita, quella di strafare invece di fare, di imbrigliare invece di allargare gli spazi di agibilità democratica.
Un atteggiamento che i più hanno dimostrato di non comprendere. Qualcuno si è chiesto che motivo vi fosse di condurre una battaglia di tipo politico su un tema che è stato regolarmente all’ordine del giorno nelle sedute di Parlamento. Perché scomodare i cittadini, se questi stessi hanno affidato nelle urne una delega inequivoca a procedere per conto loro nelle assemblee di Camera e Senato su materie come la fecondazione assistita. Nasce anche da questi interrogativi il disinteresse e la disaffezione degli italiani al voto. Un trend che al Sud registra inevitabilmente il picco massimo. Ai seggi domenica e lunedì si è recato soltanto il 15,9 dei meridionali. Quasi la metà di chi abita al Nord. Indice di un astensionismo che affonda le radici nella rinuncia e nell’indifferenza piuttosto che nell’adesione ad una richiesta specifica della Chiesa.
Basti osservare il dato di Napoli. Si è votato di più nei quartieri cosiddetti borghesi (Vomero, Arenella, Chiaia, Posillipo) e decisamente meno in quelli popolari (Secondigliano, San Pietro a Patierno, Miano, Scampia, Piscinola). I notisti si attardano in considerazioni di tipo ideologico, parlando di questi ultimi come presunti poli religiosi alla stregua di Pompei (affluenza ferma al 14,9) e Pietrelcina (8,5), ignorando la più semplice delle conclusioni. Nelle periferie i cittadini voterebbero volentieri per arginare l’emergenza criminalità ed assicurarsi un futuro migliore piuttosto che per la pur legittima ma non eccessivamente avvertita problematica della fecondazione eterologa. E qui viene fuori l’inopportunità palese, cristallina, di un referendum che propone questioni lontane anni luce dagli umori e dalle richieste della gente. Buono a minare più o meno efficacemente la leadership di un partito, ma non ad interessare la collettività, costretta a fare i conti ogni giorno con fenomeni di gran lunga più perniciosi e lesivi della dignità umana. Una considerazione che implica un ulteriore aspetto di carattere politico e strategico, quello cioè dell’assoluta incapacità dei partiti a redigere un’agenda delle priorità del Paese che tenga realmente conto delle istanze territoriali. Tutti fattori quest’ultimi che concorrono ad individuare le cause del tonfo del referendum, cause sulle quali rifletteranno in pochi visto che in… fondo, in… fondo si sta già studiando il prossimo quesito sul quale accapigliarsi in nome del popolo sovrano.
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