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La crisi del sociale ed il malcostume di snobbare l'utente finale
di Ermanno
Russo
27/01/2011
Le politiche sociali nella nostra regione versano in uno stato di profonda crisi, dovuto sostanzialmente a due fattori: la riduzione delle risorse nazionali (massicciamente assicurate dal Governo negli ultimi anni ma, da un lustro a questa parte, drasticamente ridimensionate a causa delle note difficoltà finanziaria in cui si trova il Paese) e la gestione discutibile su base locale delle medesime risorse, specie per la parte relativa agli interventi – per così dire – non essenziali. Davanti ad una crisi tanto dura e perniciosa, quindi, i soggetti che a vario titolo si occupano di garantire direttamente o indirettamente i servizi alla persona sui nostri territori sono andati chiaramente in tilt. Ne è derivata una stagione di proteste e contestazioni che si è recentemente aperta e che, si spera, duri poco o, comunque, si tramuti in qualcosa di più utile agli utenti finali dell'assistenza sociale, troppo spesso dimenticati. Ma come si esce dall'attuale crisi e su quali fattori sarebbe opportuno intervenire per rimettere in moto la macchina del welfare campano? La primissima impressione, confermata poi da indagini amministrative più accurate e da una ricognizione tecnica operata dagli uffici dell'Assessorato regionale, che mi onoro di guidare, è che non ci sia una causa unica alla base del malessere oggi così prepotentemente tornato di attualità nel settore dei servizi sociali. E' dunque da considerare l'ipotesi che a determinare l'implosione sia stata una congerie di fattori e di concause che hanno pian piano portato al collasso il sistema del welfare campano e, in misura decisamente peggiore, quello della città di Napoli. Ad agire fattori e cause interne ed esterne, per intenderci pubbliche e private. Negli anni le politiche sociali sono divenute, inutile nasconderlo, un terreno di conquista per tutti coloro che hanno coltivato e coltivano il desiderio di fare impresa, spesso molto più del necessario, forse molto più del consentito. A ciò si è aggiunto il malcostume di diverse amministrazioni comunali, associate in Ambiti territoriali, di snaturare i servizi alla persona, riducendoli in taluni casi alla stregua di iniziative ludiche, se non folcloristiche, o – peggio ancora – procedendo ad un utilizzo distorto dei finanziamenti vincolati al welfare municipale. A livello periferico, infatti, si sono potute riscontrare diverse macroscopiche criticità derivanti molto spesso da fenomeni per niente attinenti alla mission, nobile ed altruistica, che invece avrebbe dovuto connotare le azioni in difese dei più deboli, pensate dal legislatore come eminentemente solidaristiche e sussidiarie. Dico ciò perché è giusto che i cittadini sappiano e comprendano che nella nostra regione al deficit di risorse si è negli anni aggiunto un ulteriore pernicioso deficit, quello relativo alla governance territoriale dei servizi, sicuramente antico e figlio di pessime gestioni legate alla storia politica anche recente della Campania. La fotografia del settore fa emergere una discrepanza tra diritti e doveri, enormemente sbilanciata peraltro verso i primi, con prerogative inventate di sana pianta e sovrastrutture ai limite della decenza. Viene così fuori una geografia alquanto contorta e variegata degli Ambiti della Campania, in minima parte virtuosi, troppo spesso in difficoltà o, peggio ancora, in rosso con i conti perché spreconi. Iniziative lodevoli si stagliano stridendo sullo sfondo di gestioni opache, non improntate all'individuazione ed erogazione di servizi essenziali, in taluni casi meramente folcloristiche, quando non volte ad assecondare lotte di campanile contro i comuni viciniori. Sovrastrutture, dicevamo, amministrative e di apparato, il cui unico motivo di esistere sembra essere finalizzato alla distribuzione di prebende, con un aggravio di spesa evidente e senza alcun beneficio per gli utenti finali. Già, quei destinatari che oggi vengono sbandierati ai quattro venti come bisognevoli di cure, ma ieri impropriamente superati dalla brama di potere, dall'ansia di gestire flussi di fondi e risorse storicamente rilevanti e certi. Dinanzi a tali distorsioni del sistema del welfare il malato, il diversamente abile, l'anziano appare il vero sconfitto. Chiaramente, anche per il sociale, come in tutti gli altri settori dello Stato, c'è l'obbligo di non generalizzare. Le risorse intanto sono ridotte e non bisogna sottrarsi al tema, che è quello di un taglio da parte del Governo ad una delle voci più sensibili del bilancio nazionale: le politiche sociali. Una riduzione dei fondi c'è stata e nasconderlo non sarebbe onesto. Tuttavia, non bisogna neanche sorvolare sul fatto che è oggi l'intero sistema del welfare campano a gridare vendetta, meritare un nuovo corso, una stagione di sobrietà e parsimonia, di austerità ed efficienza. Su quali punti far leva, allora, per voltare pagina? La parola d'ordine è discontinuità. Discontinuità nella programmazione e pianificazione degli interventi, nell'utilizzo delle risorse, nel monitoraggio (che dovrà essere sempre più puntuale) e nel controllo (sempre più serrato) dei fondi assegnati per la spesa sociale. Basta con i contributi a pioggia, basta con i costi delle prestazioni diversi da comune a comune, da provincia a provincia, basta con servizi inadeguati e fuori luogo. E, di contro, sì all'appropriatezza delle prestazioni, ad interventi mirati e di qualità, sulla base di specifici target, ad iniziative che diano ricadute immediate e chiare a tutti. In... fondo, in... fondo, il sociale non ha colore politico né padri, è interesse dell'intera comunità campana risollevarlo e fare in modo che, anche a costo di effettuare qualche rinuncia, funzioni.
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