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La crisi del Mezzogiorno secondo i dati Istat. Welfare a rischio se non pensato in una logica di sviluppo
di Ermanno
Russo
31/05/2011
L'ultimo rapporto annuale dell'Istat consegna nelle mani delle classi dirigenti del Paese una fotografia impietosa del Mezzogiorno d'Italia. Tra il 2008 e il 2010 gli occupati sono diminuiti di mezzo milione, di cui più della metà risulta essere al Sud. Per dirla tutta, l'occupazione in questa parte della penisola è tornata ai livelli dell'inizio del decennio. Ma il dato più allarmante di tale rapporto è quello relativo alle politiche sociali. Esse, infatti, si segnalano nell'ambito del sistema nazionale del welfare per una tenuta assai scarsa nel Meridione, dove la rete di aiuti risulta essere sempre più esigua e minata dalla riduzione delle risorse tradizionalmente trasferite dallo Stato centrale. Tutti elementi questi ultimi che Rosanna Lampugnani, dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno di martedì 24 maggio, sintetizza bene nel suo pezzo di analisi relativo alle ultime ricerche dell'Istituto nazionale di statistica. “Per esempio, nel 2009 – scrive – nel Nord-Est è stato aiutato il 55,8 per cento di famiglie di anziani, nel Sud il 46,9. Una situazione destinata ad aggravarsi, perché i tagli dei trasferimenti ai Comuni e i vincoli del patto di stabilità renderanno impossibile un efficiente welfare. Già oggi i cittadini del Sud ricevono un terzo delle risorse erogate nel Nord-Est: 30 euro in Calabria, 280 in Trentino. Ancora: nel 2009 sono stati messi a disposizione servizi pubblici socio educativi per il 30 per cento di bambini emiliani, umbri e valdostani, meno del 10 per cento per quelli meridionali. Conclusione dell'Istat: le difficoltà finanziarie di molti Comuni cresceranno con il federalismo municipale e nel Mezzogiorno, dove il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali, le modifiche prefigurate potrebbero tradursi in un contenimento delle risorse impiegate nel settore dell'assistenza sociale”. Alla luce pertanto di dati e conclusioni tanto rilevanti, che si segnalano non soltanto per il profilo statistico ma anche e soprattutto per la valenza politica, è necessario fare alcune considerazioni. Partiamo da quella più stringente che ha a che fare con la crisi. E' chiaro che in presenza di un periodo di crisi economica strutturale, come quello che stiamo vivendo, il delicato tema dei servizi alla persona diviene ancora più sensibile e suggerisce due chiavi di lettura del fenomeno welfare: da un lato, intatti, la crisi ancor più eleva le sofferenze e il disagio, determinando l’aumento della domanda di servizi; dall'altro, la crisi comporta una minore disponibilità di risorse, che ancor più ci costringe a politiche di rigore, sicuramente non fondate su tagli trasversali bensì su un uso efficiente ed efficace delle risorse. E qui entra in gioco uno dei concetti cardine del nuovo modo di pensare alle politiche sociali, nel nostro Paese ma soprattutto al Sud: il welfare non può più essere considerato residuale, ossia ancorato a logiche di tipo riparatorio, bensì deve essere visto come uno dei luoghi da cui far partire lo sviluppo, una leva per uscire dalla crisi. Su questo oggi gli economisti sono tutti d'accordo, vale a dire che occorre tenere i conti a posto ma allo stesso tempo andare verso una spesa selettiva che dia riscontri concreti sul terreno della crescita, dello sviluppo. Già nella mia relazione in Consiglio regionale del febbraio scorso ebbi modo di sottolineare come il rigore, nella spesa e nell'erogazione dei servizi alla persona, fosse indispensabile anche qui in Campania e perseguibile attraverso la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione Sociale. I cosiddetti Leps, di cui si è fatto un gran parlare negli anni immediatamente dopo l'approvazione dell'ormai celebre 328 ed ancora oggi appare un argomento di punta del dibattito nazionale, senza però che si addivenga in tempo utile alla loro configurazione pratica e formale. La seconda considerazione riguarda invece il sostegno. E' evidente che quando si parla di welfare nel nostro Paese, si fa anche e soprattutto riferimento al concetto di aiuto, di sostegno, che si differenzia per tre campi d'azione: il sostegno al lavoro, alle imprese e alle famiglie. Quest'ultimo punto rappresenta il dato di partenza scelto dalla Campania per provare a disegnare un modello di assistenza sociale in grado di dar vita ad una logica di “welfare attivo”, non residuale, non riparatorio, che dia ai territori un segnale di inversione di tendenza e che, magari, possa rappresentare quella leva indispensabile per uscire dalla crisi. Quali sono dunque le politiche da mettere in campo perché ciò avvenga ed avvenga in tempi ragionevolmente rapidi. Innanzitutto, l'economia di scala, la ridefinizione di una gerarchia degli interventi che, in carenza dei Leps, tenga conto delle esigenze concrete delle comunità. Soltanto in questo modo, mettendo al centro dell'azione riformatrice le famiglie e ricalibrando sul bisogno le azioni sistemiche di natura sociale, si potrà vivere senza paura ma governando i processi prendere parte alla nuova dimensione federale evitando di subirla rovinosamente. Va però evidenziato che la ridefinizione dei target di assistenza sociale ed il relativo riordinino della governance sociale territoriale a nulla servirebbe senza l'apertura di un fronte di dialogo con il Governo, che non può sfuggire alle proprie responsabilità, falcidiando senza il minimo riguardo il plafond del Fondo nazionale politiche sociali. Un fondo che pure è stato speso male in passato e che sicuramente deve essere rimodulato secondo logiche di appropriatezza delle prestazioni, ma che non ha ragione d'esistere se continuasse ad attestarsi su cifre tanto basse e, in taluni casi, irrisorie. Un ultimo tema è quello relativo ai giovani, su cui pure l'ultimo rapporto Istat si è soffermato. Il dato sconvolgente riguarda i cosiddetti Neet, dall'inglese “Not in education, employment or training”, ossia quella categoria di soggetti che “non lavora, non studia, non si aggiorna”. Ebbene, secondo l'Istat l'80 per cento della popolazione maschile del Sud è in questa condizione. Ecco perché va fatta una riflessione profonda ed utile a capire che quando si parla di capitale sociale, specie nel Mezzogiorno, non si può non tenere conto della presenza di una notevole componente giovanile, che se non opportunamente indirizzata rischia di essere coinvolta nelle dinamiche degenerative del mercato del lavoro o in percorsi di microdelinquenza e criminalità. Di qui la necessità di strutturare un’azione che sappia fondarsi sul principio dell’elevazione del capitale sociale delle comunità campane, portandolo da una condizione collusiva, cioè fondata sull’individualismo e l’interesse particolare, ad una collaborativa, dove l’interesse generale non venga sopraffatto da quello di pochi. In... fondo, in... fondo, un Paese a due velocità non conviene a nessuno, aggiornarsi per tempo ed adeguare le proprie logiche all'evoluzione federale dell'Italia è un dovere morale, prima ancora che una missione politica, delle classi dirigenti attualmente al governo del Meridione.
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