Rubrica "in...fondo, in....fondo"

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L’etica dell’amministratore pubblico al tempo della crisi. Mai cedere alla tentazione di cavalcare il malcontento
di Ermanno Russo

In un momento di crisi economica strutturale, occorre interrogarsi sui principi che devono guidare l’azione dell’amministratore pubblico, dell’amministratore locale in particolare, nell’affrontare le tante e controverse questioni che riguardano il proprio territorio. E’ chiaro che un quadro economico disastrato, con migliaia di posti di lavoro a rischio e la reale prospettiva che con essi anche i servizi pubblici essenziali possano bruscamente interrompersi, ha in sé la tentazione, antica e mai sufficientemente combattuta, di cavalcare il malcontento e spalleggiare la piazza. Tuttavia è questo un modo di leggere la crisi e le vertenze che ne conseguono assai pericoloso e politicamente sbagliato, che affonda le radici in una interpretazione della realtà poco trasparente e per niente onesta, almeno intellettualmente. Certo, lo scaricabarile, molto in voga ultimamente anche tra le istituzioni dello Stato, consente momentaneamente di sviare l’attenzione dalle oggettive responsabilità che spesso ha chi governa, apparendo allo stesso tempo come la via d’uscita più semplice e breve, ma alla lunga non sempre paga e rischia di incancrenire situazioni già di per sé complesse e difficili da condurre in porto. Il problema poi si acuisce quando a farne le spese risultano essere settori della società, fasce di popolazione che, per condizioni socio-economiche e congiunturali, vivono in uno stato di bisogno, che aggravare aggiungendo alla necessità argomentazioni pretestuose e strumentali sarebbe quantomeno ingeneroso. La cattiva abitudine di non voler raccontare alla gente le cose come stanno è dunque alla base della diffidenza verso la politica e chi amministra. L’uomo di governo perde ogni credibilità quando si trincera dietro il suo profilo seduttivo, buono casomai a strappare applausi dal corteo di turno ma non a mantenere integra l’immagine sussidiaria e di servizio dell’istituzione per conto della quale amministra. Per sintetizzarla in qualche modo, si potrebbe dire che gli applausi, quel consenso momentaneo ed artificiale che si ottiene nel frangente in cui ci si sintonizza speciosamente con la piazza e con la protesta, non corrispondono quasi mai ad azioni e a soluzioni offerte al problema. Anzi, tali circostanze costituiscono un rimedio peggiore del male, che alimenta aspettative poi difficilmente riscontrabili nella realtà e delegittima l’istituzione o l’amministrazione per conto della quale impunemente ed incautamente si assumono impegni che non si potranno mantenere. E’ questa una pratica assai dubbia sotto il profilo etico e morale, specie in presenza di una crisi economica così acuta e perdurante, che se rende appena plausibile la propaganda delle opposizioni, in alcun modo può invece essere tollerata da chi ricopre ruoli di governo. Ma cosa induce l’uomo di governo, in un contesto così disastrato, a cavalcare il malcontento? Forse il timore di reazioni scomposte o, magari, rassegnate e arrendevoli da parte del cittadino. Magari la considerazione che una soluzione tampone possa congelare la problematica che si va a trattare, in vista di momenti migliori. Non vorremmo mai, però, che a guidare chi prende impegni per soluzioni che non ha e non può avere fosse un malinteso senso della scaltrezza e dell’astuzia o, peggio ancora, un presenzialismo deteriore, che in politica rappresenta sempre un’arma a doppio taglio ed uno strumento di dubbio effetto. E’ qui che torna il tema dello scaricabarile. Assecondare la protesta non significa dominarla, il più delle volte si finisce per subirla. Al di là, però, di quale possa essere il fattore che mette l’amministratore pubblico, l’amministratore locale, sulla strada del solidarismo aprioristico nei riguardi di chi, legittimamente, rivendica un proprio diritto, sta di fatto che, oggi più di ieri, la sola ed autentica bussola che dovrebbe guidare l’azione di chi governa è la consapevolezza ed il coraggio di dire alla gente chiaro e tondo le cose come stanno. Nel nostro caso, nel caso degli amministratori pubblici campani, di spiegare che i soldi sono finiti, o che si sono sensibilmente ridotti, e che ogni soluzione va ricercata oltre lo battere cassa, quello battere cassa indistinto e semplicistico a cui ormai siamo abituati. Non è infatti un mistero che il flusso di trasferimenti, prima copioso e ben assortito, proveniente dallo Stato centrale, dal Governo, e spalmato su tutti gli Enti locali d’Italia, oggi si è, sostanzialmente e bruscamente, arrestato. Basti pensare al settore delle politiche sociali, dove lo stanziamento delle risorse ha raggiunto cifre irrisorie: la Campania, ad esempio, è passata dai 102 milioni di euro dell’anno 2007 ai 17 milioni del 2011, mentre per il 2012 se ne prevedono soltanto 4 di milioni. Per comprendere ancora meglio la drammaticità di tale tracollo, basterebbe ricordare che i 17 milioni di euro del 2011 rappresentano una cifra che è appena il doppio dei fondi sino al 2010 annualmente trasferiti al solo Comune di Napoli. Dinanzi, allora, ad una situazione di questo tipo, con le casse vuote e delle prospettive poco incoraggianti in tutto il Paese, quale tipo di percorso occorre mettere su per rilanciare i temi fondamentali del vivere civile? La risposta è nell'impostazione unitaria che mi permetto di suggerire. Il muro contro muro che spesso è andato in scena in questi mesi non ha sortito buoni frutti. Ciò che invece serve è fare fronte comune, studiare soluzioni che abbiano una trasversalità ed una condivisione piena a tutti i livelli istituzionali, chiedendo agli amministratori locali di essere franchi ed onesti con i propri cittadini. In fondo, in fondo, chi oggi ricopre responsabilità di governo è stato eletto dal popolo o, comunque, esercita tale ruolo per il tramite del diritto di scelta del voto, rispondere del proprio operato alla gente è un dovere, rifuggire alla tentazione di cavalcare il malcontento a fini meramente propagandistici un imperativo morale.
11/10/2011